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sabato 19 novembre 2011

NAZIONALSOCIALISMO: UNA TRAGEDIA DEI NOSTRI TEMPI. MEMORIE DI UNA VERA SS MAI ESISTITA - di Wy Th’ou von Leander

 
Il nazionalsocialismo era una filosofia integrale, totale, una Weltanschaung, come dicevamo noi; ognuno doveva potervisi ritrovare, doveva esserci posto per tutti. Ma era come se in quel tutto fosse stata praticata a forza un’apertura e vi fossero stati introdotti tutti i destini del nazionalsocialismo, per un’unica via, senza ritorno, che tutti dovevano percorrere, sino alla fine.

Opera per orchestra, architettura la cui chiave di volta di un arco rovesciato, verso l’inferno, trattiene la struttura dallo sgretolarsi e sprofondare nelle gole di fuoco e fumo, è un assolo: narrazione attraverso gli occhi di una SS dell’essere stati una SS in quegli anni di luce e buio assoluti, umani e inumani, stretti tra le passioni più represse dell’uomo moderno e il mito di una volontà e di un’azione d’acciaio. Superamento di tutti i confini di qualsiasi possibile vita civile, frantumazione del valore, affermazione dell’estremo, volo pindarico di esistenze aggrappate alla vita, canto omicida sulle corde di strumenti spezzati.

Mi fissava coi suoi grandi occhi sorpresi, increduli, occhi da uccello ferito, e quello sguardo mi si conficcò dentro, mi aprì il ventre e ne fece uscire un fiotto di segatura, ero un volgare pupazzo e non provavo niente, e al tempo stesso volevo con tutto il cuore chinarmi e ripulirle la fronte dalla terra e dal sudore, accarezzarle la guancia e dirle che andava tutto bene, che tutto sarebbe andato per il meglio, invece le sparai convulsamente un colpo alla testa, il che dopotutto era lo stesso, per lei in ogni caso se non per me, perché io al pensiero di quell’insensato scempio umano era invaso da una rabbia immensa, smisurata, continuavo a spararle e la sua testa di era spaccata come un frutto,



Le benevole è la bocca aperta sull’abisso senza ritorno, un viaggio impossibile eppure realizzato attraverso anni e momenti cruciali della storia tedesca e mondiale, nel tunnel più bui della guerra e dell'omicidio. Biblico nella cadenza della tragedia e dell’orrore, testamento scritto di proprio pugno da un sopravvissuto a se stesso e all’osceno di cui ha fatto parte, lucido e non pentito narratore di quello che è stato. Un uomo che adesso vive in Francia ed è direttore di una fabbrica di merletto, che ha una famiglia, che vive portando con sé un bagaglio di ricordi pesanti e duri, che decide di mettere su carta, per se stesso.

Non ce l’avevo con il godimento, anch’io sapevo godere quando volevo, no, ce l’avevo probabilmente con la loro terribile mancanza di autoconsapevolezza, con quel modo straordinario di non pensare mai alle cose, a quelle buone come a quelle cattive, di lasciarsi trascinare dalla corrente, di uccidere senza capire perché e senza nemmeno darsene pensiero.

Crudo a carne viva, lucido fino alla perdita di ogni riferimento. La ricchezza dei dettagli che Jonathan Littell è capace di riversare sul lettore è impressionante, frutto di una documentazione precisissima, approfondita, a tutto campo. Una lettura sconsigliata agli stomaci delicati, a coloro che non sanno guardare in faccia l’altro aspetto del male, quello per il quale la ragione è la macchina gelida che trasforma l’odio e la violenza in azione programmata. Libro pesante, che ha bisogno di spazio sulla pagina, di tempo di pagina in pagina, per descrivere, fino all’ultima goccia di sofferenza e sopportazione, le vicende vissute e ricordate da Maximilien Aue: tra le principali, in Ucraina con il massacro di Babi Yar, la battaglia di Stalingrado, la supervisione nei campi di sterminio di Auschwitz e Belzec. 
Libro pesante, non in senso negativo. 
Pesante perché la storia di Maximilien si cuce sullo sfondo di fuoco e morte del nazismo, riproduce fedelmente i codici di comportamento, il pensiero, la durezza e la sfrenatezza della volontà tedesca. Affresco totale, vicenda personalissima intessuta nel mondo in cui è vissuta, di cui è stata protagonista, che ha compreso nell’immane inumanità, o nell’estrema disinvoltura cinica di una codificazione al dominio senza condizioni, di cui non si pente. Nessun pentimento in Maximilien Aue:

L’inaudita brutalità con cui certi uomini trattavano i condannati prima di giustiziarli, era solo una conseguenza della mostruosa pietà che provavano e che, incapace di esprimersi altrimenti, si trasformava in rabbia, una rabbia impotente però, prima di oggetto, e che perciò doveva quasi inevitabilmente ritorcersi contro chi ne era la causa prima. Se i tremendi massacri dell’Est provano qualcosa, è proprio, paradossalmente, la spaventosa, inalterabile solidarietà umana.

La perizia di un chirurgo, una memoria adamantina, la precisione metodica del riflettere e di esporre, la libertà che Aue si prende con il foglio scritto e la schiettezza nuda, la sincerità, del suo scrivere, costringono il lettore a farsi parte, anche solo come spettatore, di tutto quello che è stato, pungolandolo continuamente su tutto ciò che provoca, che suscita una reazione, che segna l’irrimediabile differenza tra chi ha assunto fino in fondo il nazionalsocialismo come credo e pensiero e chi no.

Se giustiziamo gli uomini, non resta nessuno per mantenere le donne e i loro figli. La Wehrmacht non ha le risorse per nutrire decine di migliaia di inutili femmine ebree con i loro marmocchi. Non si può nemmeno lasciarli morire di fame: sono metodi bolscevichi. Includerle nelle nostre azioni, con i loro mariti e i loro figli, è in realtà la soluzione più umana, date le circostanze.


                              Confini, nettamente stabiliti, che sorpassare significava morire o impazzire. Limiti da superare, compassione da rinnegare, pietà da trasformare in crudeltà. Ogni pensiero e ogni riflessione che leggiamo scritta dal pugno di Maximilien è profondamente radicata in quello che lui è stato, in quegli anni, porta l’odore del sangue e della cenere, del metallo e del gelo, del fango, della miseria e della delicatezza di alcune figure, della fragilità di vite umane così semplici da spazzare via. Tanti contro tanti, uno contro tutti, Maximilien è, come gli ebrei che ha mandato a morte, un sopravvissuto. Uno che, però, aveva il lusso di stare dall’altra parte di quel limite assai definito tra chi era degno di vivere e chi era stabilito non lo fosse, tra l’alleato e il nemico, era uno che aveva avuto scelta, uno che porta nell’anima i segni di una mostruosità assai facile da condannare e difficilissima da comprendere fino in fondo. 
Maximilien stesso è uno che si sforza di arrivare a consumare, fino in fondo, con la penna, la memoria, di riversarla completamente, di rendere quel mondo come era stato. Di tenere le redini di una follia sempre più pronunciata, nel momento in cui confini e limiti cominciano a perdere consistenza e il disastro di quello che doveva essere Assoluto e Infallibile veniva decretato dalla storia, con la sconfitta della Germania.

Littell non ha creato un romanzo e una storia sullo sfondo di quegli anni: in realtà è riuscito nell’operazione alchemica, totale, del riportare in vita l’intera epoca, passandola completamente attraverso il filtro di Maximilien, uomo colto, uomo anche passionale, omosessuale e fratello incestuoso.

Per chi non teme di guardare un se stesso che forse avrebbe potuto essere.


- Wy Th’ou von Leander.






Vede, secondo me ci sono tre possibili atteggiamenti di fronte a questa assurda vita. Prima di tutto l'atteggiamento della massa, oi polloi, che semplicemente si rifiuta di vedere che la vita è uno scherzo. Loro non ridono, ma lavorano, accumulano, masticano, defecano, fornicano, si riproducono, invecchiano e muoiono come buoi aggiogati all'aratro, da idioti così come hanno vissuto. E' la maggioranza. Poi c'è chi, come me, sa che la vita è uno scherzo e ha il coraggio di riderne, alla maniera dei taoisti e del suo ebreo. Infine, e se la mia diagnosi è corretta è il suo caso, c'è chi sa che la vita è uno scherzo, ma ne soffre.

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