Nel 1872 fu dato alle stampe un testo molto risonante e risonato, nella filosofia contemporanea, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”, di Friedrich Nietzsche, più canto dionisiaco, invocazione sublime e netta, di un ragazzo che della musica aveva una ragione di vita e passione bruciante, che opera filologica. Solo cinque anni prima, Johann Jakob Bachofen (1815 – 1887) aveva trattato, altrettanto (in tono assai diverso), del culto misterico: cinquanta esemplari di un testo pubblicato a Basilea, furono resi disponibili ad alto costo viste le illustrazioni a colore, molto costose. Si trattava de “La dottrina dell’immortalità della teologia orfica”.
Bachofen andava a mettere il dito in una piaga aperta e ancora sanguinante, nascosta nel corpus della nuova visione greca progressivamente andata affermandosi negli ambienti accademici, troppo serena e positiva per i gusti di spiriti più sensibili, quale lo era stato lo stesso Goethe.
Si trattava dei misteri, in dottrine e riti, arrivati molto parzialmente alle conoscenze moderne, racchiusi nelle testimonianze archeologiche, sparpagliati nei testi di Plutarco, Porfirio, Cicerone e Macrobio, neopitagorici o neoplatonici (per non parlare dei Padri della Chiesa che, attaccando il mito e rito antichi, ne hanno anche testimoniate le forme). Il recupero di una visione orfica, quindi dionisiaca, il rapporto di questa con l’apollineo, si allineano su assi completamente diversi rispetto all’impostazione, per molti versi, acerba e aspra di Nietzsche, il quale preferisce di gran lunga dissociare i due spiriti, nel concreto, per affermarne fratellanza o, addirittura, sposalizio, in termini che non possono essere ben chiari se non nell’estasi di una musica wagneriana. Bachofen, filologo, storico, studioso di diritto romano, antropologo, si dedicò nella seconda metà del secolo XIX allo studio delle culture antiche, completamente disconosciuto dall’ambiente accademico.
L’intero libro è commento a un ritrovamento archeologico, un vaso della tomba di una donna romana, Medella o Metella, ritrovato nella necropoli di Canosa.
La rappresentazione lunare è centrale, tra le rappresentazioni figurate sul vaso, dando spazio alla concezione astronomico-fisica dell’astro più che al contenuto mitologico relativo alla luna, in modo che “la dottrina dell’anima è (…) una conseguenza logica di quella della natura” (p. 81), rimandando a una concezione molto più antica del mito greco. Come Giove era sì sovrano ma non il primo tra i sovrani, così Saturno, il re spodestato dal figlio, ne rappresenta tuttavia un modello, partecipa dei suoi piani dal luogo in cui è stato confinato, reggente di una esperienza del divino strettamente legata ai culti orfici. Culti che, secondo la struttura data da Bachofen agli elementi in trattazione, fanno capo a una rivelazione più originaria, a una dottrina più antica, rispetto alla quale i miti di Demetra, Core e Persefone non sono che adombramenti sbiaditi. Bachofen decide così una differenziazione netta tra diversi periodi, culturali (non semplicemente storici). Se da una parte si preclude, così, la possibilità di muoversi più agilmente nel complesso della cultura antica, dall’altra saturare il quadro gli permette di far risaltare elementi di grande fascino.
I tre elementi, corpo, anima e spirito (soma, psyche, nous), sono la triade umana della struttura cosmica più grande, nella quale terra e Sole si limitano a un unico ruolo (ricevere e dare), mentre la Luna media, compie entrambi. La Luna è l’astro dell’anima umana, che regola tanto il congiungersi del corpo e dello spirito quanto il loro dissolversi, mettendo in comunicazione mondi che altrimenti sarebbero estranei. Dimensione mediana, di passaggio, di importanza fondamentale all’interno di una dottrina dell’immortalità.
Se il mondo, questo mondo, emisfero inferiore di cui la luna è reggente, è il regno della materia, la tensione che lo lega a quello superiore, uranico, innesta una lotta che è conquista, purificazione attraverso l’iniziazione, l’accesso in vita a un piano superiore che permetterà, dopo morti, di sopravvivere alla disintegrazione del corpo; movimento ascendente che non viene a negare il mondo cosiddetto inferiore. Si tratta, infatti, di quella materia del materno, della maternità alveo della materia, opposto allo spirito e ad esso legato, da esso fecondato come le idee platoniche informano la materia informe. Quiete e tranquillità di un mondo elementare, fragile, in divenire, che trova eco nelle parole di Glauco, un licio (popolo matriarcale), al greco Diomede: “Magnanimo Tìdìde, a che dimandi / il mio lignaggio? Quale delle foglie / tale è la stirpe degli umani. Il vento / brumal le sparge a terra, e le ricrea / la germogliante selva a primavera” (Iliade VI, 145, trad.ne Vincenzo Monti). Mondo che viene retto dallo Zagreo che, secondo la concezione orfica, è l’erede di Zeus nel governo del mondo (innesti, non approfonditi dal Bachofen, di una ancora più stretta parentela tra i miti di Dioniso e quelli relativi alla dea Metis, prima sposa di Zeus).
Ricordando al lettore che Zagreo è il Dioniso smembrato dai Titani, arriviamo al punto del ruolo di Dioniso come salvatore delle anime, liberatore dalle prigioni dell’individuazione, aspetto che sarebbe stato centrale ne “La nascita della tragedia”, opera di matrice schopenhaueriana (con qualche fuga in avanti che già prefigura il distacco di Nietzsche da Schopenhauer, avvenuto in sede teoria ma, non ancora del tutto, estetica, e taciuto nell’opera del 1972 probabilmente, oltre che per una timidezza congenita del giovane Nietzsche a prendere le redini di un linguaggio proprio, per l’ammirazione incondizionata a Wagner, altro schopenhaueriano). Il legame tra il Dioniso e l’Apollo di Bachofen è tra il principio del mondo inferiore e quello del superiore che si richiamano, l’uno estendendo il secondo nel mondo materiale, l’altro sublimando il primo: “Dioniso, sebbene confinato sulla terra, deve riconquistare in Apollo il cielo dal quale è disceso e la propria originaria purezza, mentre Apollo dal canto suo non deve rifiutare la comunità con Dioniso” (p. 182).
Molto mirato nella scelta degli argomenti e dell’analisi, approfondito nei punti da mettere a fuoco, il libro di Bachofen si rivela una preziosa fonte di informazioni e una panoramica generica ottimale, per l’introduzione al pensiero orfico e dionisiaco, attraverso le fonti scritte, artistiche e archeologiche. La chiarezza delle spiegazioni e la precisione dei riferimenti e dei rimandi, ne fa un testo omogeneo nei toni, ricco di spunti interessanti e meritevoli di approfondimento. Un lettore che cerchi in esso qualche appiglio per “La nascia della tragedia”, sapendo che Nietzsche aveva personalmente conosciuto la famiglia Bachofen, resterà, più che altro, stimolato a operare un esame critico di entrambi i pensatori, per valutarne insieme i grandi meriti di anticipazione, l’intuito, che permise loro di riscoprire in sede accademica la figura di Dioniso, per quelli che erano i limiti delle conoscenza a disposizione ancora nella seconda metà dell’Ottocento, tanto sulla questione dell’origine cretese (non asiatica) del dio Dioniso (che scardinava buona parte del presupposto di Nietzsche), tanto quanto sui progressi nelle discipline antropologiche, che portavano alla messa in discussione di una concezione della religione come quella di Bachofen, per il quale, in campo religioso, al contrario di tutti gli altri della vita umana sarebbe l’origine a avere purezza e completezza, e non il progresso a portare a miglioramenti.
Grandi testi del pensiero, fatti per tenere in esercizio il nostro e dischiuderci quell’angolo di mondo che, forse, è destinato ad essere sempre più lontano.
Titolo: La dottrina dell’immortalità nella teologia orfica.
Autore: J. J. Bachofen.
Editore: Bur (ed. ne 2003 usata per le citazioni).
Pagine: 317.
Prezzo: € 11,00.
Presentiamo un testo "minore" della corrente extra-accademica che, da Goethe a Nietzsche, andava controcorrente rispetto alla visione quieta e pacificata del pantheon olimpico greco: tra Grecia e Germania, filosofia, archeologia e storia concorrono alla ricerca di una teoria e prassi dell'umano in contrasto col moderno.
RispondiEliminaBrava Carla, hai proprio ragione forse il nostro incessante cercare di accedere a quell'angolo di mondo e' dovuto proprio al fatto che esso restera' per noi sempre lontano, come un miraggio visibile eppure inscrutabile ed e' bello che sia cosi' affinche' lo continuamo a bramare per tutto il corso delle nostre umane esistenze.
RispondiEliminaOLIMPIA TROILI